“Se gli uomini hanno cercato di filosofare per dissipare la loro ignoranza, è evidente che essi non coltivarono con tanto ardore questa scienza se non per conoscere le cose e non per trarne il benché minimo vantaggio materiale. Tutti i bisogni, o quasi, erano già soddisfatti riguardo alla comodità e persino ai piaceri della vita, quando sopravvenne il pensiero di questo genere di ricerca” (Aristotele, La metafisica).
Con questa alternativa tra il filosofare e il “vantaggio materiale”, Aristotele condannava la parola alla semplice funzione contemplativa, mentre il fare era delegato agli schiavi, coloro che erano costretti dai bisogni propri e degli altri a vivere il lavoro come una maledizione. Da qui l’appello, ancora oggi diffuso, alla concretezza dei fatti, in opposizione alla vacuità delle parole. Ma perché nei nostri paesi, dove la schiavitù è stata debellata da tempo e il rinascimento ci ha insegnato che il lavoro manuale è lavoro intellettuale e non esiste la dicotomia tra chi pensa e chi fa, dovremmo ancora ripetere luoghi comuni nati oltre duemila anni fa, a opera di una comunità filosofico-religiosa che voleva salvaguardarsi dagli effetti imprevedibili della parola?
Per reazione alla parola, sorge l’idea di potere scegliere, come se ci fosse un’alternativa fra questa vita e l’altra vita, fra le parole e i fatti: i fatti, necessari per soddisfare i bisogni, e le parole, solo quando i bisogni sarebbero già stati soddisfatti? Questa alternativa – che poi è stata messa in discussione e sfatata da Leonardo da Vinci (che parlava di “manuale operazione”) e dal rinascimento – è la stessa che separava le arti liberali dalle arti meccaniche. Un arcaismo che, nell’era intellettuale, non possiamo più permetterci.