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L’ALTRO NON TRUFFA: STORIA DI UNA TRASFORMAZIONE

Il vero e il falso non sono caratteristiche che possono essere attribuite alle immagini. Questo sembra dirci Giuseppe Tornatore nel film La migliore offerta. E questo dice Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-Philosophicus: “L’immagine rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità e falsità, mediante la forma della raffigurazione”. E ancora: “Dell’immagine soltanto non può conoscersi se essa è vera o falsa”. Gli fa eco il protagonista del film, Virgil Oldman, uno dei battitori d’aste più noto e apprezzato in Europa: “In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico”, la stessa frase che ripete alla fine del film l’automa di Vaucanson, ricostruito da Robert, il ragazzo che alla fine si rivela autore del furto della collezione di ritratti di Virgil, compiuto attraverso una truffa ordita con una genialità degna della sua capacità di far rivivere vecchi orologi, ingranaggio dopo ingranaggio.

Ma perché, nonostante tutto si riveli una truffa, questo non toglie verità alla prima parte del film, quella in cui lo spettatore non ha il minimo sospetto che si tratti di un’esperienza autentica? Forse perché il regista non ha distinto fra le due parti del film e si è attenuto alla logica del fantasma in ciascuna di esse. Questo impedisce di vedere il film come un giallo, anche se la trama in sé contiene tutti gli elementi di un giallo.  

La favola a lieto fine della prima parte del film, quella in cui il protagonista, dopo anni di solitudine, trova una “famiglia”, oltre a una donna che lo ama, è un’immagine che ha una forza travolgente, è ciò per cui anche chi ha sempre diffidato degli altri, in particolare delle donne – come Virgil, che ha anche un’intera collezione di guanti per proteggersi le mani da ogni contatto – sarebbe disposto a rischiare. Avere una compagna bella, intelligente, che lo ama veramente, nonostante la sua età, perché lo considera “la migliore offerta”, è un sogno a occhi aperti, il sogno di un amore epurato dall’odio. Ma sarebbe la realizzazione di un fantasma di padronanza, quello basato sull’idea di fine del tempo: finisce il tempo del lavoro e dell’amore per l’arte (Virgil decide di ritirarsi da una brillante carriera e manda all’aria la sua immagine di competenza nell’arte quando perde la testa per Claire), se arriva l’amore in carne e ossa, chi gli dimostra che esiste qualcuno per cui ha fatto tutto questo finora. “Collezionando tutte queste donne dipinte nei ritratti, non ho fatto altro che prepararmi al tuo arrivo”, sembra dire Virgil quando mostra il caveau a Claire, che racconta di essersi rinchiusa da sé in un “caveau” (la casa fatiscente dei suoi genitori) da dodici anni, da quando il suo ragazzo è morto in un incidente. Anche per questo Virgil penserà di essere il solo a poterla liberare, perché lei è simile a lui: entrambi temono il presunto pericolo dell’Altro. La specularità è un ingrediente essenziale al fantasma di padronanza: l’unico uomo che potrebbe cambiare la vita di una donna prigioniera della propria fobia è un uomo altrettanto fobico che dà la caccia ai propri fantasmi dando la caccia a quelli di lei. E, viceversa, l’unica donna in grado di fare uscire dalla tana un uomo che le donne vuol vederle solo dipinte e rinchiuse in un caveau è proprio una donna che si rinchiude in un caveau. Claire è come uno dei dipinti che prende vita, per questo è rassicurante, è un oggetto familiare, uno di quelli che può vedere soltanto quando lo decide lui. Claire lo attrae perché, da una parte, gli presenta una padronanza rovesciata, è come un dipinto che si sottrae al suo sguardo, si rende invisibile; dall’altra, gli lascia la stessa padronanza che egli ha con i suoi dipinti: quella di decidere lui quando andare a visitare il caveau. Tutto ciò che vediamo nella prima parte del film è vero, nel senso che è nella logica del fantasma di padronanza.

Tornatore sembra avvertirci nella seconda parte del film, quella in cui si rivela tutto una truffa ai danni di Virgil: non può esistere una favola a lieto fine come quella presentata nella prima parte. Chi sogna il congegno perfetto lo avrà: la truffa è proprio il congegno perfetto, l’automa di Vaucanson sarà l’unico pezzo che resterà nel caveau della collezione di ritratti di donne. Virgil voleva la donna automa, quella che non dà problemi? Ha avuto il robot che gli ripete, con la voce di Robert: “In ogni falso c’è sempre qualcosa di autentico. Sono d’accordo con te, Mr Oldman, per questo mi mancherai”.

Cosa resta del fantasma di padronanza? Restano le immagini del film, resta il regista che inventa la storia di un uomo scorbutico che cambia perché incontra quella che considera la donna della sua vita e quella di un uomo che viene truffato dall’unica donna che dice di avere amato nella sua vita. Che connessione c’è fra queste due storie/immagini? Non a caso in un’intervista il regista dichiara che aveva in mente due storie separate e non sapeva come metterle insieme. Il regista gioca con le immagini facendoci vedere fino a che punto il fantasma è coerente (nella stessa intervista dice che ha lasciato che i suoi personaggi vivessero quello che vivrebbe qualsiasi persona in una storia d’amore). Il fantasma di Virgil è lo stesso: nella prima parte la truffa da parte delle donne è temuta, nella seconda è realizzata. Ma si tratta sempre dello stesso fantasma, quello che presume di conoscere la perfidia femminile e quindi crede di doversene difendere, salvo voler vivere nella pazzia (Virgil decide di cedere alle tentazioni e diventa pazzo d’amore, finché crede che il suo sogno si possa realizzare, e pazzo da rinchiudere in una clinica psichiatrica poi, quando si accorge che il suo sogno d’amore è fallito). Tornatore non ci presenta qualcosa che è “troppo bello per essere vero”, ma la truffa che attende chi ha paura che l’Altro truffi: un’anima in pena, che prospetta sempre l’inferno, non può che trovare l’infernale e l’animalità in tutto ciò che gli accade, non può che trovare motivi di rinuncia all’incontro e alla sessualità. Gli spettatori che scambiano il film per un giallo si accaniscono nel cercare di ricostruire la trama per capire che cosa sia successo veramente e allora devono vederlo la seconda volta. Ma, come Pirandello ricordava nei Sei personaggi in cerca d’autore, l’unica cosa vera è il teatro, e la realtà degli attori è molto più vera di quella dei personaggi che essi rappresentano. Ne La migliore offerta, l’unica cosa vera è il cinema, sono le immagini che per il regista sono fatti (nel senso che sono fantasmi, perché il fatto è un fantasma). “Noi ci facciamo immagini dei fatti” e “L’immagine è un fatto”, scriveva sempre Wittgenstein. È vero o è falso l’amore di Claire per Virgil? “I sentimenti umani sono come le opere d’arte: si possono simulare”, sembra avvertirlo Billy, il pittore amico del protagonista che lo ha aiutato a formare la sua collezione di ritratti di donne, facendogli ottenere pezzi rari a prezzi assolutamente lontani dal loro valore e che si rivelerà il vero regista della truffa. Come dire: la vita è teatro e cinema. Virgil era un uomo che nella vita si faceva “immagini dei fatti” molto elementari, bianche o nere, le opere che valutava nel suo lavoro erano vere o false (e poteva far passare per un falso un’opera autentica che voleva comprare a basso prezzo). Il suo manicheismo non può reggere quando scopre di essere stato truffato: se riduce la complessità della realtà a una sola immagine dei fatti, impazzisce e, nella seconda parte, lo vediamo senza parole e spinto su una sedia a rotelle in una clinica psichiatrica. Solo nell’ultima scena, che potrebbe essere considerata la terza parte del film, quando dice al cameriere che aspetta qualcuno nel locale di Praga che Claire aveva citato nel suo racconto, l’uomo tutto d’un pezzo lascia il posto a un uomo che non pretende più di sapere che cosa sia vero e che cosa falso: le immagini in cui si rivede con Claire mentre fanno l’amore non possono considerarsi false, se non con uno sguardo surrealista, quello con cui Magritte, nella Trahison des images, dipingeva una pipa e scriveva: “Ceci n’est pas une pipe”. E in effetti non mancano nel film inquadrature surrealiste, come quella della fiamma della candelina sulla torta di compleanno che lo staff del ristorante gli offre e che lui lascia intatta perché il suo compleanno è il giorno dopo.

Al termine del film, quindi, la simulazione cessa di essere un disvalore per Virgil, che fa qualcosa senza chiedersi se sia vero o falso: è vero che aspetta qualcuno, considerando che è solo una vaga speranza quella che arrivi Claire in quel locale? È divenuto artista: l’artista è chi non si fa una sola immagine dei fatti, accoglie la complessità della realtà, non la riduce a una sola immagine bianca o nera, non si ferma all’interpretazione, non cerca di scoprire quale sia la verità delle cose, la inventa, inventa tante immagini dei fatti, anzi, le sue immagini sono i fatti. Per questo Tornatore dice che il finale è più positivo di quanto sarebbe stato un lieto fine, perché vediamo una persona “più umana”, dice, di quella che abbiamo visto all’inizio, un uomo che aspetta qualcuno che non sa se verrà (d’altronde, non può cancellare le parole che Claire aveva pronunciato quando vede per la prima volta la collezione di ritratti: “Qualunque cosa accada, sappi che io ti amo”, gli aveva sussurrato abbracciandolo). L’umanità che Tornatore attribuisce a Virgil al termine del film è l’humanitas, il terreno dell’Altro, dove il racconto, che si fa di sogno e dimenticanza – anziché di ricordo e vigile trasparenza – è racconto dell’avvenire, non dei presunti fatti. Presunti perché chiamiamo fatti le immagini che noi ci facciamo. “L’immagine è un fatto”, dice Wittgenstein, ma questo non vuol dire soltanto che il fatto in sé non esiste, è solo un fantasma, ma anche che la realtà dell’immagine non può essere negata in quanto considerata mera apparenza. “L’immagine è un fatto” vuol dire che l’abito fa il monaco, che la dimensione di sembianza, quindi ciò che viene chiamata apparenza, le immagini con la loro semovenza, il cinema, e con la loro alterità, il teatro, non sono apparenza opposta alla sostanza, perché producono i loro effetti, esattamente come ciò a cui il discorso occidentale attribuisce valore sostanziale: i soldi, il cibo, la morte, per esempio. A seconda del film che ciascuno proietta ciascun giorno o del film che non vuole vedere perché pensa di trarne dispiacere, ciascuno vive in modo differente. È ciò che ciascuno racconta, è il testo del suo racconto a decidere dell’avvenire, è il racconto a influenzare ciò che accade e non viceversa. Chi si dipinge come uomo tutto d’un pezzo non può che andare in frantumi: Tornatore dà una chance a quest’uomo, gli suggerisce di usare tutti i colori dell’arcobaleno, ma soprattutto il colore dello specchio, il colore dello sguardo e il colore della voce, ovvero il colore del sembiante, del simulacro (dal latino simul, “insieme”), accogliendo la simultaneità come condizione dell’arte e della vita, dove la differenza e la varietà, l’Altro, non sono più esclusi.

Tornatore aveva annunciato che questo film sarebbe stato la storia di una trasformazione. Ma la trasformazione non si limita a quella di un uomo da lupo solitario a innamorato. Sarebbe un semplice rovesciamento di un fantasma materno: come prima è “preso” da se stesso poi è “preso” da una donna. La trasformazione sta nella dissipazione di ogni fantasma materno, quando per Virgil s’instaura l’apertura, l’attesa assoluta di chi non si aspetta nulla perché non è preso da nulla. Nel locale di Praga (nella piazza dell’Orologio) in cui è seduto ha alle spalle centinaia di ingranaggi, come quelli che lo avevano tanto ossessionato nella ricostruzione dell’automa di Vaucanson. Un altro tempo incomincia per lui, se non accetta di dipingersi come vittima dei suoi stessi ingranaggi, un tempo non cronologico, non misurabile e non risparmiabile, per cui l’incontro e i suoi effetti non si possono evitare: un tempo che si trova facendo e che prelude all’infinito.

Non è un caso che Tornatore abbia trovato affascinante il mondo delle aste, dove la vendita procede dal racconto: “Questa grande capacità – dice ­­– di rendere straordinario anche quello che straordinario non è”. Dice che il suo è stato un lavoro di “gioia della narrazione” e che “la linearità della storia nasconde una complessità non raccontabile sullo schermo”.

Allora, è vero o è falso l’amore di Claire quando dice: “Qualunque cosa accada, sappi che io ti amo”? Potremmo rispondere con le parole di Virgil: “In ogni falso c’è sempre qualcosa di autentico”: l’attore è vero come il personaggio, anzi, Pirandello direbbe che è vero più del personaggio. Ma potremmo aggiungere che chi pensa di fingere è tratto nella finzione a tal punto che gioisce e soffre in modo autentico: la vita è teatro e dietro una maschera c’è un’altra maschera. La maschera allora non è più il falso che copre il vero, ma una delle dimensioni della parola, la dimensione della sembianza. E, se non ci sono più i buoni e i cattivi come immagini che devono ridurre la realtà togliendo il due e l’Altro, non c’è nessuno da smascherare.

Note di lettura del film La migliore offerta di Giuseppe Tornatore.

Anna Spadafora